L’acqua è una risorsa vitale e in questo momento di grave siccità stiamo riscoprendo il suo ruolo prezioso. Mentre gli agricoltori sono in ginocchio, le autorità italiane invitano i cittadini a limitarne il consumo e i sindaci firmano ordinanze anti-spreco, ci sono aziende che ne sfruttano davvero troppa per fare profitti.
Fra le tante spicca Coca Cola, azienda che è finita nel mirino di una protesta organizzata dagli attivisti per l’ambiente del movimento Rise Up 4 Climate Justice, insieme al sindacato Adl Cobas e ad alcuni centri sociali.
“Lo stabilimento della Coca Cola di Nogara (VR) è uno dei più limpidi esempi di estrattivismo nel nostro Paese. La fabbrica – già nota per condizioni di sfruttamento e precarietà a cui sono sottoposti i lavoratori – ogni anno utilizza quasi un miliardo e mezzo di litri d’acqua dalla vicina falda acquifera, pagando un prezzo poco più che simbolico alla Regione Veneto. Tutto grazie a concessioni che la stessa regione non ha mai voluto rinegoziare: meno di due anni fa un decreto del direttore della Direzione Ambiente rinnovava a tempo indeterminato l’uso delle derivazioni di acque sotterranee.”
In una fase estremamente delicata, caratterizzata da razionamenti idrici a causa della siccità, la multinazionale continua a estrarre, sfruttare, produrre e incassare denaro. E questo avviene nonostante più di 10 anni fa un referendum ha sancito che non ci potesse essere più alcun margine di business per l’acqua e che qualsiasi scelta sul servizio idrico dovesse passare attraverso il pieno controllo democratico.
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Cosa possiamo fare? L'azienda Coca Cola vende molto d'estate, motivo per cui non fermano né rallentano la loro produzione, neanche in caso di grave siccità e razionamento idrico. A parte le concessioni da parte della regione e gli accordi fra le parti politiche, per cui sarebbe opportuno prestare attenzione a chi votiamo ed eleggiamo, se Coca Cola vende è perché c'è chi compra. Limitare il consumo di bevande di questo tipo (oltretutto assolutamente superflue per l'organismo e di dubbia salubrità) può portare più di un vantaggio: economico, per l'ambiente e la salute.
Questo è solo un esempio di boicottaggio: per i temi che ci stanno a cuore possiamo decidere di agire smettendo di comprare (e quindi finanziare) prodotti o marchi. Lascio alcuni esempi esplicativi:
Industria tessile:
Shein, H&M, Zara, Primark → accuse di sfruttamento di manodopera sottopagata in Bangladesh, Cambogia e Myanmar.
Nike → storicamente accusata negli anni ’90 e 2000 di usare manodopera minorile e sottopagata in Asia.
Estrazione di minerali:
Glencore, Cobalt mining in Congo → miniere di cobalto per batterie di smartphone e auto elettriche con lavoro minorile.
Agricoltura:
Coltivazioni di cacao in Costa d’Avorio e Ghana (Mars, Nestlé, Hershey) accusate di ricorrere al lavoro minorile.
Allevamenti intensivi e mangimi:
JBS, Cargill, Bunge → accusati di deforestazione in Amazzonia per produrre soia destinata a mangimi per animali.
Olio di palma:
Wilmar International (fornitore di Unilever, Kellogg’s, Nestlé) → deforestazione in Indonesia e Malesia, sfruttamento lavoratori.
Coltivazioni di avocado:
In Messico, alcune piantagioni controllate da cartelli criminali sfruttano territorio e manodopera (coinvolgendo marchi internazionali indirettamente).
Caso Nestlé (latte in polvere):
Marketing aggressivo nei paesi poveri, inducendo le madri a usare latte artificiale in condizioni igieniche precarie → aumenti di mortalità infantile.
Coca-Cola in India:
Accuse di consumo eccessivo di acqua potabile in zone aride (Kerala, Rajasthan), impoverendo le risorse locali.
Shell, ExxonMobil in Nigeria:
Inquinamento e corruzione nei delta del Niger per estrazione petrolifera.
H&M e cotone dello Xinjiang:
Denunce per uso di cotone proveniente da lavoro forzato di minoranze uigure in Cina.
Boohoo:
Produzione in fabbriche britanniche con salari molto inferiori al minimo legale.
Ferrero (olio di palma):
Nonostante iniziative di sostenibilità, ONG hanno segnalato fornitori legati a deforestazione.